Quando al cinema l’apparenza inganna sono le famiglie il fulcro della storia, sono soprattutto le donne a soffrire (ma non è sempre così) e molte volte le storie sono ambientate nell’America degli anni Cinquanta. Personalmente amo quel momento storico caratterizzato dalla massima eleganza e da una musica travolgente. Tuttavia non è tutto oro quel che luccica e la triste verità è che in quel periodo molte vite erano dedicate alla pura apparenza. Donne perfette, trucco sempre curato, abiti che esaltavano la fisicità femminile eppure quella bellezza superficiale non poteva curare un malessere che si generava all’interno della psiche. Nel film Revolutionary Road, del 2008, si assiste proprio a questo: una famiglia in apparenza perfetta, una coppia bellissima – interpretata da Leonardo DiCaprio e da Kate Winslet, acquista e vive in una casa che fa da sfondo all’incomprensione e all’allontanamento progressivo degli sposi. Mentre il marito Frank si riesce ad adeguare alla vita e al futuro che si prospetta alla coppia, la moglie April risente del ruolo che le viene assegnato dalla società. Rifiuta di vivere in una comunità in cui la donna è relegata al ruolo di moglie e madre, lei vuole vivere, fare esperienze, girare il mondo e quindi cerca di ribellarsi. Se in un primo momento sembra che Frank appoggi la moglie, man mano che il film procede si assiste alla depressione e al senso di claustrofobia che la società trasmette ad April. Il senso del dovere e dell’apparenza prevale sulla coppia in modo inesorabile. Allo stesso modo nel film Far from Heaven, diretto da Todd Haynes, anch’esso ambientato nell’America degli anni Cinquanta, i protagonisti vivono all’interno di un costante senso di oppressione, questa sensazione viene risaltata da una serie di scelte registiche: il forte contrasto tra colori caldi e freddi (forse a voler omaggiare il genere del melodramma), le inquadrature, la musica malinconica e drammatica. Questa pellicola che rende omaggio al film del 1955 di Duglas Sirk, All that Heaven Allows, da cui prende spunto per sviluppare la trama, tocca con delicatezza tematiche importanti, quali: la differenza di classe sociale, l’omosessualità e la difficoltà di integrazione razziale. L’amore impossibile tra Cathy e Raymond viene ostacolato dall’ignoranza delle persone che li circondano e dal razzismo. Per questi amanti sfortunati il lieto fine non può esistere, il loro amore non può che restare platonico e come dice il titolo stesso, la loro felicità non potrà che essere Far from Heaven.
La finta perfezione e le apparenze non valgono solo per gli anni Cinquanta e per le donne. Nel thriller di David Fincher Gone Girl, del 2014, la vita apparentemente perfetta di Nick Dunne, interpretato da Ben Affleck, viene stravolta e capovolta. Ciò che lo spettatore crede di vedere non è ciò che realmente è. Tutto è apparenza, tutto, anche il punto di vista della narrazione è forviante. Il dramma segue le vicende di una famiglia a cui improvvisamente accade qualcosa di inaspettato – la moglie di Nick, Amy scompare. Dietro di lei ci sono indizi, sospetti, accuse e frasi sussurrate. Tanto lo spettatore, quanto i personaggi del film, cedono alla tentazione e credono ciò a cui vogliono credere. La falsa perfezione, la bella vita, lussuosa di una coppia viene messa sotto la lente di ingrandimento e attraverso questa attenta analisi ci si rende conto che nulla è come sembra. Niente di ciò che crediamo è reale, lo straordinario metodo di narrazione del regista permette allo spettatore di cadere nella trappola e solo alla fine del film ci si accorge di ciò che realmente le persone sono. Sotto il velo patinato della finta perfezione della vita borghese si nascondono fragilità, paure, imperfezioni che fanno parte della vita di tutte le persone. La casa perfetta che racchiude una finta vita perfetta mostra che non sono solo le donne degli anni Cinquanta a essere vittime dell’apparenza. Amy decide di rispondere, di reagire, in un modo decisamente drastico e inaspettato ma sebbene la sua personalità si discosti parecchio da quelle delle vite precedentemente citate, anche lei inizialmente paga lo scotto di voler nascondere la polvere sotto il tappeto di casa.
La vita narrata da un film non deve necessariamente essere perfetta per essere stravolta. Non è sempre un singolo essere umano a soffrire per le apparenze e le false credenze, un’intera comunità può venire stravolta a causa di una falsa convinzione. Nel film danese Jagten (letteralmente “la caccia”), tradotto in Italia con il titolo Il sospetto, è un piccolo paese a essere stravolto dallo scandalo. Le apparenze in questo caso non nascondono la sofferenza ma, anzi, al contrario, le accuse celano la verità. Mads Mikkelsen interpreta Lucas, un insegnate accusato di pedofilia ai danni della figlia del suo migliore amico. Lo spettatore in questo caso conosce fin da subito la verità e vede come una falsa accusa, infondata possa distruggere la vita di un uomo, della sua famiglia e conseguentemente della comunità nella quale vive. In questo caso non è una casa a celare la verità, ma una cittadina a non voler concedere il beneficio del dubbio a un amico. Una sola frase, un solo sguardo, una mezza accusa può distruggere la vita di una persona tanto quanto una bella casa può nascondere un malessere interno. La cattiveria delle persone, l’ignoranza, il razzismo e la concezione utopistica di come una società dovrebbe essere può distruggere, senza lasciare il minimo spazio alla speranza e alla redenzione, uno o più soggetti. Questi film, tutti magistralmente diretti e interpretati portano alla luce personalità che, attraverso il loro sguardo semplice, onesto e speranzoso mostrano come il mondo dovrebbe e potrebbe essere. Purtroppo queste persone (tanto le donne quanto gli uomini) sono vittime più o meno consapevoli delle apparenze e delle ipocrisie.
Nel caso te lo fossi perso…
- Far from Heaven, Todd Haynes, 2002
- Revolutionary Road, Sam Mendes, 2008
- Jagten, Thomas Vinterberg, 2012
- Gone Girl, David Fincher, 2014
[…] intitola Jagten e per recuperare l’articolo in cui ho citato questo lavoro vi basterà cliccare QUI. Se cercate invece un lungometraggio diverso, che non sia un thriller e che sia già stato […]
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[…] di avere alla regia, in alcuni episodi, niente meno che David Fincher (Fight Club, Panic Room, Gone Girl – questi lungometraggi sono già stati analizzati all’interno del blog, se volete recuperare […]
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[…] andate a rileggere ciò che ho scritto riguardo al primo lungometraggio cliccate sul seguente post Case di bambole, il cui titolo si riferisce all’opera di Ibsen. Se vi interessa recuperare l’articolo in cui ho […]
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[…] Sono numerosi i titoli che David Fincher dedica al genere del thriller nel corso degli anni: Panic Room (titolo che ho già analizzato, se volete leggere ciò che ho scritto cliccate QUI), Zodiac, The Girl with the Dragon Tattoo, distribuito in Italia come Millennium – Uomini che odiano le donne. Nel 2014, con Gone Girl, torna però a creare un film in cui la visione dello spettatore viene forviata dalla narrazione. Lo sguardo del pubblico coincide ancora una volta con l’occhio del protagonista maschile, che in questo caso corrisponde a quello di Ben Affleck, affiancato da Rosamund Pike. Nuovamente il regista americano gioca con la macchina da presa, con la narrazione e con l’ignaro spettatore. Ciò a cui assistiamo, ancora una volta, non è altro che una parte di una realtà più complessa e più grande di quanto ci possiamo aspettare. Per scoprire ulteriori dettagli su questo suo lavoro vi invito a riscoprire il mio precedente articolo: Case di bambole. […]
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