All’interno della sezione Afterhours della trentasettesima edizione del Torino Film Festival è presente l’ultima opera di Grace Glowicki: Tito. Scritto, diretto e interpretato dalla stessa ragazza questo film porta in scena le paure, le ansie e i tormenti di un ragazzo. Per l’occasione la giovane autrice cambia genere, sebbene la voce la tradisca e così facendo il tormentato protagonista sembra essere una specie di incontro tra due entità. Quasi a voler spogliare il soggetto protagonista della storia anche di un’identità di genere. Non che sia necessaria ma certo questo senso di disorientamento non fa altro che evidenziare gli altri elementi che concorrono a creare un film a cavallo tra l’horror e la paranoia. Il vero fattore che permette di insinuare questo senso di paura e di distorsione della realtà tuttavia è un elemento fuori campo: la musica. La colonna sonora, fatta tanto di suoni quanto di note musicali, è la vera chiave di lettura che conduce lo spettatore verso un continuo senso di fastidio. La paura e il disagio nascono quando gli elementi sonori vanno in netto contrasto con le immagini. Alla musica segue l’immaginazione che porta la conseguente paranoia del giovane e sfortunato protagonista.
All’interno della pellicola Tito è praticamente impossibile per lo spettatore empatizzare con il soggetto principale del film. I traumi che il ragazzo ha subito in passato sono chiari, lampanti ed evidenti, sebbene non vengano mai mostrati. Tuttavia le ferite che si porta dietro questo giovane sono così forti da suscitare nello spettatore un senso di distacco. Inoltre un soggetto così incapace di vivere all’interno di una società e di provvedere al proprio sostentamento fa nascere alcuni dubbi nella mente dello spettatore. Come può una persona così fragile vivere? Effettivamente all’interno del film è chiaro che il soggetto non vive ma a malapena sopravvive, però risulta comunque una forzatura. Il ragazzo si trascina per casa, sempre ricurvo su se stesso, incapace di sentirsi a proprio agio anche all’interno delle mura domestiche. Le paure che percepisce vengono dall’esterno dell’abitazione, si nascondono nei muri e nelle tubature. Ogni suono causa un trauma e uno spavento. Questa costante sensazione di disagio si scontra con un personaggio del tutto differente. L’improbabile vicino di casa, che porta scompiglio nella vita del ragazzo.
Lo spettatore tuttavia non riesce a empatizzare nemmeno con il vicino di casa. Insopportabilmente invadente ed eccessivamente logorroico. Nemmeno con l’essenza stessa del disagio e della paura il pubblico può fino in fondo empatizzare. Ci sono infatti delle soggettive dal punto di vista dell’eventuale minaccia esterna. Ancora una volta però l’unico elemento davvero fastidioso è dato dal sonoro e non tanto dall’inquadratura distorta di una casa fatiscente. A netto contrasto con queste immagini e suoni ci sono delle riprese in pieno giorno, dotate di luce naturale e colori vividi. Il sole che riscalda la pelle eccessivamente bianca del protagonista (il quale ha un evidente strato di trucco bianco) tuttavia non riesce a riscaldare i cuori e gli animi dei personaggi come quello degli spettatori. La vera nota di merito di questa pellicola è Tito stesso. Grace Glowicki è straordinaria non tanto nella sua trasformazione da donna a uomo quanto nella sofferenza che riesce a trasmettere grazie alla sua postura (sempre ricurva, costantemente sulla difensiva) e alla sua espressività. Accanto al senso della paura e dello spaesamento quindi nella mente dello spettatore nasce un profondo senso di dispiacere per questa povera anima persa che pare non conoscere un attimo di pace. Il film è un circuito chiuso, che inizia e si conclude sotto una stessa costante linea guida: l’impossibilità di essere felice, l’incapacità di trovare un attimo di pace. Tito è un film a cavallo tra numerosi filoni cinematografici, è un esperimento che alla fine per creare paura e disagio però ricorre ai soliti metodi (inquadrature distorte, musica e suoni di sottofondo eccessivamente alti, quasi totale assenza di contatto umano) eppure la chiave di lettura è proprio lì: il corpo umano. I gesti, le parole non dette, gli occhi costantemente alla ricerca di qualcosa che non c’è, sono la vera forza di questo film. Sarebbe bastato dunque concentrarsi maggiormente sul soggetto protagonista e dimenticarsi del resto, insomma, di tutto il superfluo e dei cliché che soffocano questo lungometraggio.