A White, White Day è il titolo internazionale con cui è uscito Hvítur, Hvítur Dagur, opera seconda del regista islandese Hlynur Palmason, in concorso alla trentasettesima edizione del Torino Film Festival. Questa pellicola oltre a celebrare la bellezza del freddo paesaggio islandese mostra la rabbia, quella vera e viscerale che si impossessa tanto della mente quanto del corpo di una persona. La rabbia e un continuo senso di frustrazione accompagnano costantemente il protagonista di questa storia. Noi spettatori scopriamo immediatamente la fonte di questo senso di perdita e di alienazione: la prima scena infatti a cui assiste il pubblico è quella di una macchina che precipita. Non c’è nemmeno bisogno di chiedersi se il conducente è sopravvissuto, è palese e lampante che questo lungometraggio comincia con una perdita, con la morte. Spesso alla morte viene contrapposta la vita ma in questo caso, di fronte alla fine di tutto, viene posta in netto contrasto la rabbia della perdita. L’incapacità di superare un lutto.
Ingimundur, il protagonista di questo racconto, interpretato da Ingvar Eggert Sigurðsson, non è solo, anzi, è circondato da vita e da persone che lo vogliono aiutare ma la sua determinazione supera qualunque cosa. È deciso a soffrire e a scoprire se ciò che ha sempre sospettato sia vero. Rimasto vedovo Ingimundur si rifugia nel lavoro di ristrutturazione di una casa, nella sua quotidianità fatta di piccoli gesti e di poche persone. Tuttavia questa apparente calma viene man mano scalzata dal vero sentimento che abita nell’animo dell’uomo: la rabbia appunto. A White, White Day procede lentamente, esattamente come il suo protagonista e proprio come lui a tratti mostra la sua vera essenza. Cambia ritmo e quando ciò accade il protagonista pare quasi un personaggio grottesco in quanto si contrappone alla calma che contraddistingue la terra d’Islanda. Le persone che abitano questa incredibile nazione si presentano pacifiche, sempre sorridenti e disponibili. Tuttavia anche loro nascondono i loro segreti che prima o poi richiedono di essere svelati. Così come la nebbia si alza e toglie il suo velo che nasconde ma non cancella, allo stesso modo la trama cerca di mostrare ciò che all’inizio non ci è dato vedere. Il protagonista di questo racconto procede all’unisono con la trama e il ritmo del film. Prima calmo e lento, pacifico e sorridente e poi a tratti arrabbiato, forte fino a sfiorare la crudeltà.
Accanto a questo cambio di ritmo e al paesaggio, che dona un’incredibile luce bianca naturale a tutta la narrazione, c’è un’investigazione. Quella di Ingimundur che preferisce concentrarsi sulla ricerca di una verità a lui nascosta piuttosto che sulla sua elaborazione del dolore. Questa costante luce bianca pare quasi abbagliare tanto lo spettatore quanto i personaggi del film A White, White day. La luce non mostra ma acceca, rende immobili e incapaci di vedere. Ciò che Ingimundur non capisce immediatamente, dopo essere diventato vedovo, è che non deve cercare di svelare il passato e voltare il suo sguardo verso l’assenza e la rabbia quanto ammirare ciò che è rimasto. Il futuro è la vita e la possibilità di essere di nuovo felice. Il futuro in questo caso ha il volto della piccola nipotina del protagonista. Tuttavia prima di poter dirigere il suo sguardo in avanti il protagonista sente la necessità di affrontare il presente legato a doppio filo con il passato. Passato e presente sono congelati insieme in questa pellicola. O per lo meno lo sono finché lo status quo non viene scosso dai tormenti interiori del protagonista. La velocità della pellicola segue il ritmo del cuore del vedovo e questo viene fuori non tanto attraverso il montaggio quanto attraverso i movimenti stessi del protagonista e soprattutto dai dialoghi. Inizialmente sono scarni e poi man mano che il film si apre ecco che i discorsi diventano più lunghi. Il film di Hlynur Palmason A White, White Day è un po’ come il suo protagonista e la terra stessa che lo ospita: tutto da scoprire, lentamente, sotto la luce magica dell’Islanda.