Il Torino Film Festival, giunto alla sua trentasettesima edizione, annovera tra gli innumerevoli film, all’interno della sezione Festa Mobile, il film Frances Ferguson. Questa pellicola, diretta da Bob Byington, mostra la storia di una giovane supplente che, senza porsi nessun dubbio e senza farsi alcun problema, intraprende una relazione con un suo studente di appena diciassette anni. Il film parte con ogni buona intenzione: c’è la storia, ci sono i personaggi ma soprattutto c’è la giovane protagonista, interpretata molto bene da Kaley Wheless. Tuttavia questo non basta a far decollare la narrazione. All’inizio è estremamente facile per il pubblico comprendere i motivi che spingono la ragazza a questo comportamento. Un marito inesistente, una madre ingombrate e la più totale e sconvolgente noia. L’apatia che prova la giovane Frans è assolutamente palpabile, grazie alla regia, all’attrice stessa e al montaggio. Tuttavia questo senso di incompletezza permane per tutta la durata del lungometraggio.
Questo metodo narrativo sebbene funzioni in maniera completa e totale all’inizio, dopo la prima metà inizia a stancare. Chiaramente il principale intento della pellicola Frances Ferguson è di far uscire la noia dallo schermo affinché approdi tra le poltrone della sala cinematografica. Però questo non basta, l’apatia, il senso di vuoto e una quasi totale mancanza di vitalità non permettono di continuare a provare questo senso di empatia verso la supplente venticinquenne. Anche la voce narrante che ci guida all’interno di questa storia è (giustamente) piatta e pare essere quasi annoiata quanto Frans. Tuttavia questa ben precisa scelta registica e questo metodo di narrazione causano una sorta di inversione di marcia all’interno dell’animo dello spettatore. Dalla comprensione si passa all’indifferenza fino ad approdare verso una sorta di astio nei confronti della ragazza. Certamente questo cambio d’umore è una rappresentazione lampante del fatto che la pellicola funziona. Riesce a far cambiare idea, raggiunge il suo intento di suscitare qualcosa nel suo pubblico. Bisogna però fare attenzione quando i sentimenti che nascono nell’animo umano sono quelli della noia e, soprattutto, dell’insofferenza.
Il fatto che il pubblico inizi a non sopportare più questa ragazza, che pare altrettanto immobile quanto il resto della piccola cittadina e della trama stessa, rischia di essere una lama a doppio taglio. Frances Ferguson risulta quindi essere un lungometraggio piatto ed essendo privato di una cosa fondamentale quanto la trama stessa rischia di congelarsi all’interno di un limbo, in bilico perpetuo tra un documentario mal riuscito e un film. Una nota di merito, invece, che non va affatto trascurata è la bravura di Kaley Wheless, alla quale è richiesta la più totale immobilità. La ragazza alterna momenti in cui pare prendere vita ad altri in cui tutto il suo corpo si spegne. L’unico dettaglio in lei che rimane costantemente attivo e presente sono i suoi occhi, anche quando sono assolutamente annoiati. L’alienazione che deve provare la rende sempre alla perfezione, senza sembrare fuori dalla pellicola o finta. Lei c’è ed è presente, più di quanto non si possa dire della trama stessa.
L’altro personaggio che merita una menzione speciale per aver portato un po’ di vita e di vitalità all’interno di questo lungometraggio è David Krumholtz. È ovvio e palese che Frances Ferguson non vuole essere un film come tanti altri. Cerca una rottura con gli schemi e la trova ma forse non del tutto. Accenna a far capire fin dove si vorrebbe spingere ma non osa andarci. Quindi i veri punti focali di questa storia sono gli attori, che tengono la storia e la portano avanti con la loro bravura. Infine, una nota di merito va certamente al metodo narrativo, che riesce a prendere ciò che prova la protagonista e a trasmetterlo al pubblico, in maniera quasi totale, soprattutto all’inizio di questo strano percorso all’interno dell’immobilità della vita.